La rubrica online dedicata ai libri dell'Indipendent ha pubblicato, nei giorni scorsi, la recensione al libro]Obliquity: Why our goals are best achieved indirectly di John Kay. La tesi del libro (o almeno della recensione) è che la linea retta spesso non è la via migliore per raggiungere un obiettivo.
L'articolo inizia con un esempio tutt'altro che metaforico: il percorso dello stretto di Panama. Panama è, com'è noto, il punto del centro America dove i due oceani sono più vicini, e dunque il luogo ideale dove scavare un canale per permettere alle navi di transitare da un oceano all'altro. La via più breve fra due punti, com'è noto, è la linea retta. Il percorso del canale, però, non è in linea retta, ma segue il percorso orograficamente migliore. In fase di realizzazione, questa scelta ha significato scavare un canale più lungo. Il vantaggio di seguire il percorso più agevole era però tale da compensare l'allungamento del tratto.
Quello dello stretto di Panama è un esempio di problem-solving. I naviganti avevano un bisogno: passare da un oceano all'altro senza circumnavigare l'America del sud. Qualcuno, allora, si è prefisso uno scopo: creare il canale di Panama. Lo scopo ha un senso, perché permette di soddisfare il bisogno.
Bisogni, scopi, motivazioni
Lo scopo, da solo, non basta. Bisogna essere motivati a realizzarlo. E, per essere motivati, si deve essere ragionevolmente convinti di avere le risorse per farlo. E di avere un progetto, anche di massima, ovvero avere la ragionevole convinzione che seguendo una serie di passi si raggiunge l'obiettivo.
Dunque, ci vuole uno scopo, capace di soddisfare un bisogno, ci vogliono le risorse e la capacità di farlo.
In un'impresa ingegneristica, è opportuno pianificare tutto quel che può essere pianificato prima di iniziare. Spesso, però, questo non è possibile, per una serie di motivi. Due, principalmente:
- non è detto che il percorso sia noto a priori. Anzi, generalmente non lo è: spesso durante il processo emergono ostacoli che, prima di iniziare, non potevano essere previsti, oppure non potevano essere correttamente valutati. Ma, aspetto non meno importante, durante il processo possono emergere opportunità che non erano state previste. Certo, prima di iniziare bisogna stimare i rischi, ma se questi sono ragionevoli bisogna partire, e non aspettare che tutto diventi chiaro prima di muovere il primo passo.
- La seconda ragione è forse meno ovvia, ma non meno importante. Spesso anche l'obiettivo, all'inizio, non è chiaro: bisogna partire, e definirlo e ridefinirlo durante il percorso. Questo aspetto è critico, e spesso può minare la motivazione. Se non so chiaramente qual'è l'obiettivo che parto a fare? Non so dove andare, e non so nemmeno se, una volta arrivato, avrò raggiunto i miei scopi e soddisfatto i miei bisogni.
In circostanze come queste (obiettivo non chiaramente definibile), che sono in realtà piuttosto frequenti, è necessario rendere flessibile la pianificazione, e lavorare sulla motivazione.
Focalizzarsi sul processo
Il consiglio che emerge dall'articolo dell'Indipendent è quello di focalizzarsi più sul processo che sul risultato. L'articolo cita Reinhold Messner, e la sua scalata all'Everest. Lo scalatore, dice l'articolo, durante la sua impresa si concentrava non sull'obiettivo (la cima) ma sul processo. E, durante il processo, assumeva un atteggiamento molto simile a quello della mindfulness: rimanere nell'attimo presente, concentrato esclusivamente su quello che stava succedendo in quel preciso momento, su quello che doveva fare nei secondi successivi. Una concentrazione che porta ad una riduzione delle emozioni negative.
Focalizzarsi sul processo più che sull'obiettivo è importante sia per aumentare l'efficienza del processo stesso, sia per preservare la motivazione.
Per quanto riguarda l'efficienza, focalizzarsi sul processo permette una maggior elasticità, necessaria per affrontare gli imprevisti: aggirare gli ostacoli ed approfittare delle opportunità.
Ma la focalizzazione sul processo aiuta soprattutto a non disperdere la motivazione. Quando intraprendiamo un'impresa, ci viene spontaneo prendere esempio da altri, da qualcuno che ce l'ha fatta. Se ci focalizziamo solo sul risultato, avremo la tendenza a pensare che il loro processo sia stato lineare. In realtà, generalmente non è così: anche chi ce l'ha fatta ha dovuto affrontare difficoltà, subire degli arresti e dei fallimenti. Anche il loro percorso, spesso, è stato tortuoso. Ricordarsi dei fallimenti e delle difficoltà di chi ce l'ha fatta ci aiuta ad affrontare meglio le nostre difficoltà e le nostre battute d'arresto.
Rinforzi e gratificazioni
Infine, non va dimenticato che la motivazione viene alimentata dalle gratificazioni. Se ci si focalizza soltanto sul risultato finale, ci sentiremo gratificati solo quando (e se) arriveremo alla fine. Nel frattempo, però, la benzina motivazionale rischia di andare in riserva. Se, al contrario, ci focalizziamo sul processo, ogni passo sarà un piccolo successo. Ogni volta che superiamo un passaggio difficile, possiamo decidere di festeggiare o di concederci un piccolo premio. Sembrano stupidaggini new age, ma in realtà il nostro cervello funziona proprio così: ha bisogno di rinforzi, il successo è un rinforzo, e a decidere che cos'è un successo siamo noi. Se consideriamo come risultato utile solo il risultato finale, il rinforzo arriverà solo alla fine. Se consideriamo un successo il superamento di ogni passaggio impegnativo, le gratificazioni, seppur più piccole, saranno più frequenti. Sarà come far benzina durante il percorso: possiamo partire più leggeri, e ridurre il rischio di rimanere per strada senza benzina: stanchi, demotivati e convinti che non arriveremo mai alla meta.
Conclusioni
Per riassumere, l'atteggiamento 'obliquo' proposto da John Kay e dalla recensione sull'Indipendent è un invito all'elasticità di pensiero e alla capacità di focalizzarsi sul processo, di adattarsi alle circostanze, di accettare che il percorso possa non essere lineare e che l'obiettivo possa essere sfumato. Spesso, sostiene l'articolo, le aziende che fanno più profitti non sono quelle che si focalizzano esclusivamente sul profitto, ma quelle che si impegnano per fare bene il loro lavoro, e dunque - magari implicitamente - si focalizzano sul processo.
Beckham, Maradona e il percorso ottimale
Nell'articolo dell'Indipendent viene citato un goal, realizzato da Beckham in nazionale, contro la Grecia. Lo so, sono dispettoso, ma non ho resistito all'idea di concludere con un altro goal, che gli inglesi hanno subito. È il famoso "goal del secolo" di Maradona contro l'Inghilterra: Diego riceve la palla a centro campo, semina tutti, entra in area e segna. In questo caso il percorso non è lineare ma quasi: con le sue finte e controtempi Maradona riesce a sbilanciare, spiazzare e saltare gli avversari: lui fa in modo che siano gli ostacoli a spostarsi, nel tentativo di fermarlo. Ma lui è Maradona; a noi comuni mortali non resta che cercare di arrivare comunque al traguardo, anche a costo di qualche curva in più.