Questo caso è interessante per due aspetti. Primo, la presenza di Alessia e Prosopagnosia in una paziente senza disordini di riconoscimento di oggetti smentisce la previsione di Farah (1990) secondo la quale questo pattern di dissociazione non dovrebbe esistere. Secondo, i risultati dei test relativi ai volti permettono, nonostante la loro apparente contraddittorietà, una identificazione abbastanza accurata del livello al quale il flusso di informazioni sottostante al riconoscimento di volti è stato interrotto.

Il riconoscimento visivo della paziente era molto buono, anche quando valutato agli impegnativi livelli percettivi, ad esempio, con test che comportavano una segmentazione visiva (figure sovrapposte) e un completamento visivo (figure di Street) e quando il tempo di presentazione era molto breve (50 msec). L'integrità del riconoscimento di oggetti era in netto contrasto con la compromissione del riconoscimento di lettere e facce, costituendo ciò una sfida alla visione secondo la quale per l'Agnosia per gli oggetti sono necessarie sia la compromissione della modalità di codifica analitica sia quella globale. Risultati analoghi sono stati riportati da Buxbaum e altri (1996) in un paziente che, a seguito di infarti occipitali bilaterali e un periodo di cecità transitoria, mostrava una compromessa lettura di parole (21% corrette con un tempo limite di 60 secondi) e una prestazione casuale al riconoscimento di volti famosi, ma un sostanzialmente preservato riconoscimento di oggetti. Farah (1990) prevedeva una possibile eccezione alla sua teoria, cioè, una lieve compromissione di entrambe le abilità di codifica che avrebbe causato una lieve Prosopagnosia a Alessia, ma un deficit di riconoscimento di oggetti non prontamente rilevabile. Questo non era il caso di Anna e del paziente di Buxbaum e altri, le cui Alessia e Prosopagnosia erano di sufficiente rilevanza clinica da compromettere la loro vita quotidiana e le cui abilità di riconoscimento di oggetti vennero testate estesamente.

Come accennato nell'introduzione, anche il pattern di dissociazione inverso (Agnosia per gli oggetti in assenza di Alessia e Prosopagnosia), che Farah (1990) riteneva essere incompatibile con la sua teoria, venne trovato in un paziente di Ruminati e altri (1994, per una discussione sull'interpretazione di questo caso , vedi Farah, 1997, e Ruminati e Humphreys, 1997). Dobbiamo quindi concludere che la Teoria di Farah è stata smentita, falsificata dai criteri che lei stessa aveva stabilito.

Più in generale, la prestazione di Anna ai test di riconoscimento di volti va contro l'assunzione di Farah (1990) che tutti i tipi di Agnosia, compresa quella associativa, sono conseguenti a disordini percettivi. La signora non solo era in grado di percepire le sottili caratteristiche visive che permettono di discriminare l'età e le emozioni di un volto, ma poteva anche ottenere una descrizione strutturata del volto che ne permetteva l'identificazione da differenti punti di vista, come mostrato dalla sua buona prestazione al test di Benton. Il suo deficit sembrerebbe quindi colpire processi post-percettivi e la sfida di conseguenza diventa stabilire a che livello avviene. Il risultato che la paziente aveva una corretta prestazione ai test di riconoscimento di facce e forme casuali ricorrenti esclude una compromissione uguale nell'immagazzinamento e nel ricordo di informazioni visive. Il deficit di apprendimento di volti sconosciuti emergeva solo quando il volto stimolo presentato nelle fasi di studio era visto da un differente angolo rispetto a quello in cui era presentato nella fase di test. Dal momento che la paziente aveva una prestazione corretta al test di Benton, l'incapacità di abbinare differenti punti di vista dello stesso volto non può essere dovuta a disordini di classificazione percettiva e suggerisce che la paziente era incapace di attivare la rappresentazione astratta del volto, immagazzinata nelle unità di riconoscimento. Il deficit potrebbe essere dovuto o ad una alterata trasmissione dell'output percettivo alle unità di riconoscimento oppure ad una degradazione delle unità stesse. In ogni caso il deficit era specifico per i volti e non coinvolgeva il riconoscimento di oggetti da differenti punti di vista. Fin qui abbiamo considerato l'apprendimento di volti sconosciuti. Le stesse conclusioni sono applicabili ai volti familiari? Apparentemente, alcuni aspetti della prestazione di Anna ai test di volti noti sono in disaccordo con il modello di Bruce e Young (1986), il quale, essendo sequenziale, prevede che un danno ad un modulo debba necessariamente provocare una disfunzione dei moduli che da esso ricevono informazioni. Sulla base di questa assunzione, ci si sarebbe dovuti aspettare che la prestazione compromessa nel test di scelta del volto familiare (meno del 50% delle sue identificazioni erano corrette) avrebbe causato una bassa prestazione sia nel test di abbinamento visuo-verbale sia nel test di denominazione. Solo la seconda previsione venne confermata, mentre la paziente ottenne un punteggio quasi perfetto al test visuo-verbale con un alto grado di sicurezza, sebbene la latenza della risposta era significativamente aumentata. L'analisi delle caratteristiche che differenziano i due compiti che Anna fallì (scelta del volto familiare e denominazione) e del compito che aveva svolto correttamente (riconoscimento su presentazione del nome) aiutano a chiarire questo problema. Mentre la prestazione ai primi test è completamente dipendente dall'input percettivo, quella al secondo test trae beneficio anche del rinforzo dato dal nome, cioè, trae beneficio da un percorso top-down che ha la possibilità di accedere al magazzino delle unità di riconoscimento e di provocare la generazione dell'immagine del volto corrispondente al nome (Figura 2). Che tale strategia fosse vantaggiosa per la paziente era dimostrato dalla sua buona prestazione al test di confronto di immagini mentali, che le richiedeva di evocare l'immagine di un volto, con sufficienti dettagli da poterla poi differenziare dalle immagini di altri volti. Nel test di riconoscimento, quindi, poteva evocare l'immagine del volto che era stato nominato e usare quell'immagine come uno standard di riferimento, rispetto al quale confrontare le deboli, scarse informazioni ricevute dai centri percettivi, nonostante la loro incapacità di attivare, in assenza di suggerimenti, la corrispondente rappresentazione immagazzinata. La prestazione aveva un costo in termini di tempo, ma alla fine veniva coronata dal successo.

Fig.2 - Modello dei percorsi seguiti dai processi di riconoscimento di volti bottom-up (linee continue) e top-down (linee tratteggiate) e presunta sede della lesione della paziente.

Se questa interpretazione è corretta, l'abilità della paziente nella generazione di immagini è una prova che il suo magazzino di memoria a lungo termine era intatto e che la Prosopagnosia venne causata dalla parziale interruzione dei canali che connettono i centri percettivi co le unità di riconoscimento. C'è un generale accordo (Kosslyn, 1980; Farah, 1984,1994) sul fatto che il riconoscimento e la generazione di immagini condividano le stesse memorie visive a lungo termine e utilizzino le stesse strutture anatomiche. C'è, tuttavia, un certo disaccordo fra studi PET (Kosslyn, Alpert, Thompson e altri, 1993) e dati neuropsicologici (Chatterjee e Southwood, 1995; Goldenberg, Mulibacher e Nowak, 1995; Servos e Goodale, 1995) sul fatto di includere o no le aree visive primarie.

Il test di confronto di immagini potrebbe rappresentare un utile aggiunta alla rosa di strumenti utilizzati per valutare il livello funzionale al quale il riconoscimento di volti è danneggiato, dal momento che aiuta a differenziare un deficit di accesso da un deficit di immagazzinamento, un problema spinoso e ancora non risolto. Confrontato con altri test, usati per studiare la generazione di immagini, come la descrizione verbale o il disegno a memoria, questo test possiede un punteggio calcolabile più rapidamente e facilmente. È vero che all'inizio una bassa prestazione potrebbe anche scaturire dal danneggiamento del meccanismo di generazione di immagini (Farah,1984), ma, se fosse questo il caso, il paziente dovrebbe dimostrare un normale riconoscimento. Inoltre nessun caso con un deficit di immaginazione ristretto alle rappresentazioni di voti è mai stato riportato.

Ringraziamenti. Questa ricerca è stata supportata da una sovvenzione dell'Università di Modena al Dr. Ennio De Renzi. Ringraziamo la Dr.ssa M.J. Farah per averci gentilmente inviato una copia dei suoi compiti di ricordo di volti e oggetti ricorrenti.

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